La vita sempre più difficile nelle grandi città…e non solo…
Prendiamo a prestito una frase che trae origine (pare) dal tema di un bambino di una scuola elementare del Sud e che, nel 1990, ha dato il titolo ad un libro scritto da Marcello D’Orta e poi, nel 1992 ad un film diretto da Lina Wertmuller. Un affresco del disagio socio-economico del Sud che narra le vicende di un Insegnante del Nord (Paolo Villaggio) erroneamente trasferito in una scuola del Sud con tutte le sue problematiche di frequenza, di preconcetti, di speranze di una vita migliore. Situazione lontanissima da un Nord decisamente “più avanti”.
Il perché di questo accostamento deriva dal fatto che ad oggi la vita, le relazioni sociali, l’ascolto delle idee dell’altro, il dialogo, sono sempre più difficili da mettere in atto in una società in cui prevale il “politicamente corretto” e non si sa bene cosa ed in quali modi si intenda, ed il tentativo di poche minoranze di prevalere comunque sulla maggioranza, non con la forza delle idee e del dialogo, ma con la prevaricazione e la negazione di tutto a vantaggio di ciò che “si vuole”. “Se qualcosa ti manca – si sente spesso dire – vattelo a prendere.” Viatico per una sicura violenza e negazione del valore della proprietà.
Le periferie, queste benedette periferie, un tempo isola felice di un popolo di lavoratori umili e spesso mal pagati, ma profondamente onesti e rispettosi delle regole e di chi queste regole cercava di far rispettare. Una periferia dove l’anelito più forte era l’elevazione sociale, mediante il lavoro, il sacrificio, la costante ricerca di un benessere, che oltre che economicamente potesse sollevare anche nella scala sociale.
Sognare che un domani i figli non dovessero fare i sacrifici del genitori era forse “l’Undicesimo Comandamento” di tante famiglie.
Le periferie di oggi sono, negli anni, divenute delle “polveriere “ pronte ad incendiarsi per un nonnulla, pronte ad aggredire, a derubare a colpire senza motivo.
Le famiglie originarie di tali periferie poco alla volta, grazie a politiche poco oculate e poco rispettose dei luoghi e della storia, si sono dovute allontanare a pro di”nuovi arrivati” a favore di politiche che sembrerebbero aver favorito chi arrivava spesso in modo clandestino, piuttosto che cercare che in qualche modo questo inserimento avvenisse in maniera graduale e non massiccia ed incontrollata.
In tal modo si sono venuti a sviluppare interi quartieri nei quali ha iniziato a prevalere il malcontento, il “traffico” delle case popolari, l’insorgere di “realtà” che poco avevano a che vedere con l’onestà ed il merito acquisito a volte in anni di attesa per vedersi assegnato un alloggio.
Poi a queste nuove realtà, alle nuove generazioni di persone nate si nel nostro Paese, ma che del fatto se ne importavano davvero poco, si è data una “denominazione” una “casella nella società” : i “Maranza” quasi un marchio di fabbrica che ne potrebbe aver agevolato il modo di agire ed i comportamenti spesso ostili verso le forze dell’Ordine “tanto non possono farmi nulla” e le Istituzioni, troppo spesso tolleranti verso chi più che un lavoro cerca di occupare il tempo a delinquere ad aggredire, derubare riunendosi in “bande” molto ben organizzate e pronte a farsi la guerra ed a spartirsi il territorio.
La cronaca è piena di questi fatti delittuosi, di questi comportamenti sprezzanti anche verso un Paese, il nostro, che nel bene o nel male li ha ospitati ed oltre ad una certa cultura , spesso non desiderata, non poteva certo permettersi, come da qualche parte si vorrebbe, di riempirli di soldi, dargli una casa e magari, se proprio desiderato, anche un onesto lavoro.
Gli onesti cittadini lavoratori o pensionati di queste periferie debbono chiudersi in casa già nel pomeriggio e sperare di non essere aggrediti o derubati per strada.
Certamente, e ne prendiamo atto con favore, non solo e non sempre la delinquenza proviene dagli immigrati o da clandestini dei quali neppure si sapeva dell’esistenza, perché anche molta della nostra gioventù e stata attratta dal mito del tutto e subito, dal mito dei vestiti firmati dal mito della disponibilità di denaro anche senza lavorare e dall’assenza della severità educativa di molte famiglie che preferiscono nascondersi dietro l’impotenza nel poter gestire la prole.
Ed allora ecco il “Io speriamo che me la cavo” il credere o sperare che il domani possa essere migliore, ma non potrà esserlo senza un’azione di maggiore controllo che significherebbe più severità e migliori “regole di ingaggio” per le forze dell’Ordine, per quei cittadini chiamati a difendere il territorio senza avere i mezzi per poterlo fare e che anche loro, ci viene da credere che ogni volta che si trovano a gestire l’ordine pubblico si diranno”Io speriamo che me la cavo”.
Chi viene nel nostro Paese e chi nel nostro paese è nato e cresciuto, magari da generazioni, avrebbe il sacrosanto dovere di capire che il benessere si conquista con fatica, lavoro, rispetto degli altri, impegno sociale ed anche politico, ma in giusta maniera senza usare ogni Corteo, ogni Manifestazione, ogni Sciopero per colpire qualcuno o qualcosa, per sostenere cause che da giuste e sacrosante divengono motivo di violenza e prevaricazione, spinti spesso da “pifferai” sconvolti e traumatizzati dalla “frustrazione da mancanza di potere”.
Non è ancora troppo tardi per rimediare, ma si deve prendere atto che sempre maggiori porzioni del nostro territorio si stanno conquistando a favore del malaffare delle pretese assurde del “prendersi tutto e subito”.
E, da ultimo, sarebbe ora di smetterla, a molti livelli, di voler sempre dare una giustificazione anche agli atti più ignobili, ai comportamenti più delittuosi, riconducendo tutto ad una”rabbia che queste persone portano dentro di se”. Giustificando l’ingiustificabile spesso e volentieri, in quella applicazione che cita “la Legge è uguale per tutti”. E così dovrebbe essere per il bene e la garanzia di una buona qualità di vita per molte persone. E qui ci fermiamo augurandoci che il Bambin Gesù porti oltre ai doni anche molto “sale” da mettere in zucca laddove manchi. Buone Feste.
Pier Marco Gallo







