La sottile differenza tra la protesta e la violenza
In questo periodo pervaso da guerre, spostamenti di consistenti masse di giovani da varie parti del mondo verso l’Europa, di cambiamenti climatici e di politiche sempre più volte all’interesse personale che al benessere, ci sentiamo quasi in “dovere” di porre un accento sul modo e nei termini in cui si sta trasformando la protesta in violenza e nei modi in cui questa protesta viene ad arte indirizzata verso altri scopi ed altre forme non proprio legali di trasmettere messaggi del “tutto permesso”.
La grande strada che separava il rispetto dall’intolleranza, il diritto di rendere palesi le proprie idee e convinzioni anche con manifestazioni di piazza, sta diventando la “scusa” per attaccare i tutori dell’ordine pubblico, per rendere pubbliche le proprie convinzioni mediante la feroce critica all’avversario; quella grande strada che separava le due cose è diventata negli anni e nel recente un sentiero irto di rovi e di violenza.
Quella strada è diventata terreno di caccia per quelle “truppe” mosse a piacimento come “burattini” che mimano quello che il puparo vuole, come soldatini pronti ad ogni bisogna pur di disprezzare tutto e tutti, senza rispetto né delle cose, né delle persone.
E’ un discorso non semplice da portare avanti e non facile da far capire a coloro che si “immergono” nelle agitazioni di piazza ed approfittano delle “limitazioni”che non consentono di far operare al meglio coloro che alla nostra sicurezza sarebbero addetti.
L’espressione delle proprie idee e del proprio pensiero, anche quando in contrasto con l’attualità prevalente, è un diritto che solo le grandi democrazie consentono di porre in essere e solo le grandi democrazie accettano e, se del caso, condividono in tutto o in parte.
Agitare il passato e solo quello significa tradire la possibilità del pensiero libero, il proprio io, il proprio essere persona libera, essere pensante e non trascinato da altri che si barricano nel passato perché non hanno idee per il futuro non hanno la percezione esatta tra il giusto e lo sbagliato, tra il lecito ed il non consentito, trovando una scusa ed una motivazione ad ogni atto contrario al buon vivere ed al rispetto degli altri, dell’altrui proprietà e delle regole che una società sana deve imporre a tutti, nessuno escluso.
Ed allora si assiste sempre più spesso che le ricorrenze siano trasformate in oggetto contundente da far partire da lontano e sempre in direzione di qualcuno o qualcosa che da fastidio. Le ricorrenze sono divenute negli anni, celebrazioni solo di una parte e non del tutto, come se solo una parte si auto eleggesse degna di ricordare, di affermarsi come migliore, lanciando sull’altra gli insulti più feroci, le additasse come eredi di un passato che è si stato, ma difficilmente potrà ritornare, a meno che chi lo denigra non ne venga lentamente a farne parte con la propria intolleranza e con la propria granitica certezza di essere nel giusto.
Attaccare le Forze dell’Ordine, quegli uomini che spesso sono messi nelle condizioni di non poter andare “oltre” un certo limite di “contenimento”, fa si che chi lo vuole si senta motivato ed indotto a fare di più, a rendere più pesanti le ragioni delle proprie azioni a sobillare quella gioventù che, come accaduto in passato, è pronta a seguire i “pifferai” quelli che tutto sanno e tutto giustificano, quelli che prima condannano e poi processano spesso senza impegnarsi a conoscere le ragioni di un fatto o di una situazione.
Ed allora ecco che spuntano i caschi, gli scudi, i bastoni delle bandiere, di quelle bandiere che fieramente si portano come a consolidare le proprie convinzioni, ma che poi vengono capovolte per diventare armi, per diventare violenza. Quei simboli che si individuano in sciarpe e copricapo che diventano non già un modo di far conoscere un’idea, ma una misura atta ad occultarsi, a non farsi riconoscere quando si sta commettendo qualcosa che si sa non è corretta , ma la si fa comunque “perché è così” “perché si deve fare” “perché ci si sente importanti a farlo e si diventa di esempio per gli altri.”
La democrazia è bella, ma difficile da gestire, ci vuole cultura, pensiero, attitudine al dialogo, sincerità ed educazione. Ci vuole pazienza, tanta pazienza e tanta umiltà nell’ascoltare gli altri, nel presupposto che non sempre chi non la pensa come noi sia un “cretino”, nella migliore delle ipotesi.
Pier Marco Gallo